Metà ghanese metà scozzese, l’architetto-attivista prepara la prima Biennale post-eurocentrica

Con Lesley Lokko l’Africa decolonizza Venezia e l’architettura

Alessio Garofoli, PPAN
22. May 2023
Scatto dalla Biennale di Architettura 2023 ©PPAN
Scatto dalla Biennale di Architettura 2023 ©PPAN

La Biennale si fa insomma permeare dalle nuove idee partite dall’ambito anglosassone per diventare egemoni nel mondo in questa fase storica: su tutte, simboleggiata da una donna, attivista, per metà europea e per metà africana, quella di intersezionalità. Con l’obiettivo di “decolonizzare” l’architettura, disciplina giudicata finora troppo centrata su cultura e nomi occidentali.

E come la diaspora del Continente nero, che lei stessa nella sua dichiarazione curatoriale descrive come «quella cultura fluida e intricata di persone di origine africana che ora si trova a cavallo del globo», vita e carriera di Lokko sono state definite dalla varietà di esperienze e luoghi abitati. Cresciuta principalmente nella capitale ghanese Accra, Lokko ha poi frequentato il college sulla costa di Dundee, in Scozia. Una studentessa della Bartlett School of Architecture di Londra che a un certo punto si allontana dalla professione per scrivere narrativa “rosa” intrisa di domande sulla razza per più di un decennio, prima di tornare a insegnare all'Università di Johannesburg nel 2014. Lì, vede una «fame di cambiamento» che scuote i campus in tutto il Sudafrica, con studenti che protestano per le disparità educative chiedendo la “decolonizzazione” dell’ateneo. Nota anche una penuria di studenti di architettura neri, così fonda la scuola di specializzazione in architettura dell'università e, tornata ad Accra, l’African Futures Institute (Afi).

Scatto dalla Biennale di Architettura 2023 ©PPAN

L’edizione di quest’anno della Biennale è stata chiamata “Il laboratorio del futuro”, con un occhio non solo alla questione culturale ma anche, evidentemente, demografica ed economica: gli africani hanno tassi di natalità vigorosi, e tassi di crescita del Pil che devono farci archiviare la vecchia idea del continente più povero tra i poveri. Ricordando, nell’accoppiata decarbonizzazione-decolonizzazione, che responsabilità e costi della crisi climatica non sono equamente distribuiti. E che l’Africa rivendica a buon diritto un avvenire in cui non sia più soltanto serbatoio di materie prime, e di braccia da sfruttare per estrarle, a uso occidentale e si spera nemmeno cinese.

Scatto dalla Biennale di Architettura 2023 ©PPAN

Ottantanove partecipanti, più della metà provenienti dall'Africa e con un’età media di 43 anni, esploreranno l'impatto del continente sulla scena dell’architettura globale attraverso un approccio al “cambiamento di forma” che si estende a cinema, giornalismo, riutilizzo adattivo, bonifica del territorio e pratica di base. Tra loro ci sono grossi nomi come Diébédo Francis Kéré, vincitore del Pritzker 2023, e David Adjaye, e praticanti emergenti come Sumayya Vally di Counterspace, il poeta Rhael “Lionheart” Cape e l'artista visivo Olalekan Jeyifous. Vedremo quindi programmi che evidenzino la «capacità dell'Africa di essere diverse cose contemporaneamente: tradizionale e moderna, africana e globale, colonizzata e indipendente», ha detto Lokko al New York Times. Un continente in cui «siamo abituati a dover pensare alle risorse, ad accendere una luce senza alcuna garanzia di energia elettrica. Siamo in grado di affrontare il cambiamento». Se del caso, facendosi sentire: la Lokko ha polemizzato col governo italiano per aver rifiutato il visto a tre membri del suo team poche settimane prima dell'apertura della mostra.

Scatto dalla Biennale di Architettura 2023 ©PPAN

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